Type: Commissioned Letter
Client: Anonymous
*This personal letter is being shared with the explicit consent of the client and was written to a teacher from his childhood. It was written in Italian and invokes several linguistic nuances and double-entendres which somewhat limit its translatability.
However, a translated version is coming soon.
Carissimo Don Pierluigi,
Le scrivo questa lettera, che da troppo tempo avevo in cuore di scrivere, per dirle una cosa semplice, ma al contempo febbrilmente importante.
Grazie.
Aspettiamo sempre troppo a dirla questa parola, bisillabo dai suoni acuti e sferzanti come frusta nell’aria: grazie.
Parola che graffia l’anima e che da pace.
Parola che richiama la bellezza ed il dono divino assieme. Ed in effetti grazie è una risposta - che ci dimentichiamo spesso di dare - ad un dono più grande che abbiamo ricevuto.
Di quanti doni abbia ricevuto da lei e dalla Comunità in cui ho avuto la fortuna di crescere sarebbe troppo lungo e superfluo fare l’elenco.
Posso solo dire che non sarei nulla di quel che sono oggi senza di loro.
Non che voglia vantarmi di quel che sono. Non è questo che intendevo. Che potrei essere se non una persona come tante che cerca di fare del suo meglio?
Solo non so immaginarmi diverso da quello che ora sono e costantemente cerco di essere.
Ed in quel “cerco di essere” ci stanno tutti i valori che si sono costruiti e incisi dentro di me fin da quando i miei giorni erano scanditi dalle sue parole e dai suoi insegnamenti: la comunità come unico luogo in cui far fiorire l’umano, l’educazione e la cultura come pietra angolare di ogni convivenza democratica, la scelta di stare sempre dalla parte degli ultimi, il lavoro come servizio, l’orgoglio, umile ma determinato, per le proprie idee, ricercate sempre al di là del luogo comune, della lettura semplicistica della realtà, della via più comoda e gratificante.
Non so se quello in cui credo oggi è ciò che ha cercato di trasmettermi lei negli anni del liceo e della mia formazione nella Comunità del santuario. Penso però che si assomiglino molto, come lontani parenti di cui si sente un richiamo di forma e di sostanza ogni volta che ci si rincontra.
In quanto poi alla mia fede, non si faccia un cruccio se mi vede lontano. Sarebbe superbo da parte mia ostentare certezze in una faccenda così potente. Non ne sono in grado.
Posso solo dire che se entro in una chiesa non riesco a fare a meno di dire una preghiera, in silenzio, in un angolo, quasi di nascosto. E posso anche dire che la preghiera che mi riesce più facile è un’Ave Maria.
Per il resto, se un Dio c’è (e il mio periodo ipotetico nasconde una speranza più che un dubbio) conosce di certo il mio cuore e sa che quando ho fatto male non l’ho fatto per egoismo, ma per fragilità o poca intelligenza (e questa di certo non è una scusante); e che quando è successo ho sempre cercato di chieder scusa (altra parola tanto difficile, così profonda da essere un sacramento); e che ogni cosa che cerco di creare, con le poche abilità che possiedo, risponde sempre alla domanda, “come può tutto questo rendere migliore il mondo in cui vivo?”
Forse avrei dovuto dirle tutto questo molto prima e a voce. Ma c’è un tempo per ogni cosa, come ci insegna Qoelet. E forse mi riesce un po’ più facile esprimerle scrivendo che a parole.
Spero di non averle rubato tempo e di non essere sembrato inopportuno.
Erano parole che avevo bisogno di dirle e che non volevo che mi rimanessero incastrate nell’anima.
Con profondo affetto e la più infinita riconoscenza,
D.F.